È di questi giorni la notizia di un appello,
lanciato in questi giorni da alcune centinaia di professori, che pone l’accento
su un problema piuttosto grave: gli errori-orrori grammaticali e ortografici
commessi dagli studenti universitari. Ora, se una persona arriva
all’università, si suppone che abbia le basi per esprimersi oralmente e per
scritto: in fin dei conti all’università si sostengono esami, si preparano
relazioni, si consultano abitualmente dispense scritte da altri e tomi non
esattamente alla portata di chiunque. Eppure, dicono desolati i suddetti
professori, negli atenei si assiste quotidianamente allo scempio della lingua
italiana, con errori da scuola elementare, pardon primaria, ormai si chiama
così.
Vi dirò, non è difficile da credere: sono stato
anche io studente universitario, e ho conosciuto in prima persona colleghi con
voti anche alti che faticavano a scrivere una relazione scritta comprensibile e
avevano un vocabolario personale molto limitato. Non solo: a volte li ho visti
arrabbiarsi (questo succede spesso anche nelle scuole di grado inferiore)
perché un docente che so, di chimica, aveva corretto un errore grammaticale
nella prova scritta abbassando il voto. “Non è il suo lavoro, mica insegna italiano,
l’esercizio era giusto!”, questa è la reazione abituale quando succedono questi
episodi, un tipico esercizio di paraculaggine con cui ci rifiutiamo di
focalizzare il problema reale. Per citare una frase fatta, la situazione è la
stessa di quando “il saggio indica la luna, ma lo stolto guarda il dito”. È
ovvio che il docente di chimica corregge innanzitutto ciò che rientra nel suo
campo di competenza, ma facciamoci questa domanda: è accettabile che, a livello
universitario, ci sia impreparazione in campo grammaticale e ortografico? Prima
di rispondere, pensiamo un attimo a quello che è, o dovrebbe essere, lo scopo
dell’università: formare le menti migliori, aiutarle ad esprimere tutto il loro
potenziale, preparare la classe dirigente del futuro.
Ecco.
Se colleghiamo quest’ultima affermazione con quanto
scritto in precedenza, possiamo iniziare a tremare: la futura classe dirigente
commette errori da scuola primaria, e neanche si preoccupa di correggerli.
Viene da chiedersi, cosa faranno queste persone una volta che arriveranno
effettivamente a dirigere qualcosa? Se in questi futuri dirigenti alberga
questo atteggiamento di spocchia e superiorità nei confronti della cultura di
base, che dirigenti potranno mai essere? C’è da aver paura a pensarci, poi
basta ascoltare gli strafalcioni presenti nei discorsi di alcuni politici, e ci
si rende conto che la frittata è bell’e che fatta: abbiamo mandato al potere
gente (anche non laureata, ma questo è il meno) che non sarebbe neanche dovuta
uscire dalla scuola primaria per manifesta impreparazione. Non solo: questo
atteggiamento di superiorità e di arroganza si riscontra anche in frasi
grammaticalmente corrette ma raggelanti, tipo “con la cultura non si mangia”,
frase detta da un ex ministro dell’economia. Eccolo lì, il dialogo con la
“pancia” dell’elettore medio: la cultura non ti nutre, per cui ne puoi anche
fare a meno. Con tutte le conseguenze del caso: anche nella vita di tutti i
giorni, si incontrano continuamente persone che non sanno esprimersi
correttamente a voce o per scritto, e non perché non abbiano frequentato la
scuola, ma perché semplicemente “cosa importa se scrivo bene, se non faccio
errori di grammatica, se so usare il congiuntivo? Mica mi dà da mangiare, il
congiuntivo!”; o ancora “io non leggo, non mi piace, ne ho già abbastanza dei
libri di scuola”…e intanto il vocabolario personale si assottiglia sempre di
più. Eccolo, il patrimonio che stiamo dissipando a più non posso: la nostra
meravigliosa lingua, violentata quotidianamente da chiunque, a tutti i livelli.
È stato raggiunto un grado impressionante di impreparazione e negligenza nel
suo uso, solo perché “ma si, tanto si capisce cosa voglio dire”, oppure “sto
commentando su Facebook, mica sto scrivendo un tema”. Si può quasi parlare di
analfabetismo di ritorno, e la cosa grave è che colpisce tutti, perfino chi
scrive le leggi dello Stato, che produce così testi incomprensibili, come
denunciato dal presidente del Senato Grasso. Siamo arrivati a questo: abbiamo
svalutato la nostra lingua, e più in generale la cultura personale, e così ci
ritroviamo con aspiranti dirigenti magari anche preparati nel loro campo, ma
fondamentalmente “somari”. Un paradosso che non promette nulla di buono. Non
starò a sindacare ora sulle cause di questo declino, ma penso che, se vogliamo
invertire la tendenza, il cambiamento debba partire dal basso, da ciascuno di
noi: leggiamo un libro in più, arricchiamo il nostro vocabolario, risolviamo
quel dubbio grammaticale od ortografico che magari ci tormenta dai tempi della
scuola: così facendo, magari ci ricorderemo meglio di esigere la stessa
chiarezza e lo stesso rigore da parte di chi ci governa. Alla faccia di chi
dice che “con la cultura non si mangia”, e magari fa di tutto per alimentare
l’ignoranza.
A voi i commenti!
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