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martedì 17 ottobre 2017

LICENZA POLITICA-Parte 1: il diritto di voto

Il voto: un diritto che riteniamo (giustamente) sacrosanto, e che è stato oggetto di durissime lotte nel corso dei secoli: se ora ci rechiamo normalmente alle urne, senza limitazioni e costrizioni di sorta, è solo grazie a chi ha lottato prima di noi, pagando talvolta con la vita il suo impegno e i suoi ideali. La domanda che mi pongo è: noi, che ci rechiamo alle urne nella nostra epoca, sappiamo quanto sia importante il diritto/dovere di voto? Siamo in grado di esercitarlo consapevolmente? Selezioniamo in maniera adeguata le informazioni di cui siamo bombardati quotidianamente per farci un'idea e fare una scelta motivata e circostanziata?

Ecco, vedendo il proliferare dell'ignoranza, dell'analfabetismo funzionale, del populismo che parla alla pancia, e non alla testa, delle persone...purtroppo mi viene da rispondere NO, alle suddette domande.
Faccio un esempio: qualche sera fa, in televisione, si vedevano alcune persone che dichiaravano la loro assoluta contrarietà al cosiddetto "ius soli" (non voglio né sponsorizzarlo né contrastarlo, è solo un esempio, sia chiaro). Poi però, gli si chiede cosa voglia dire esattamente la locuzione "ius soli", e non sanno rispondere, né sanno da quale lingua venga. Gli si chiede di coniugare un congiuntivo e loro, che si spacciano per i paladini dell'identità italiana, storpiano orribilmente la nostra meravigliosa lingua con strafalcioni che manco alla scuola primaria. Anche per scritto, soprattutto sui social network dove si leggono i peggiori orrori da matita rossa formato gigante. Non ci sono scuse per un'ignoranza di questa portata: la padronanza della lingua o ce l'hai o non ce l'hai, le H del verbo avere (tanto per fare un esempio) si DEVONO saper usare al volo, senza pensarci, sono nozioni da scuola PRIMARIA (o elementare, se preferite) e la fretta di scrivere non è una scusa. Se sbagli le H, o se non sai articolare correttamente una frase non sei di fretta, sei un IGNORANTE.

Dove voglio arrivare? Ecco il punto: da persona mediamente istruita, posso accettare il fatto che il mio voto abbia esattamente lo stesso peso di quello di un analfabeta funzionale, o di un analfabeta e basta? E' accettabile che l'opinione di chi si informa un minimo abbia lo stesso peso di quella di chi non si informa per niente e crede a tutto ciò che gli raccontano annullando il proprio senso critico, ammesso che ce l'abbia mai avuto?

La mia risposta è NO. Anche perché, col crescere dell'ignoranza e dell'analfabetismo, funzionale e non, se saltasse fuori qualcuno con l'interesse a mantenere nell'ignoranza i propri governati (e chi ci dice che non ci sia già??), avrebbe gioco facilissimo ad intercettare i loro voti. Dove porterebbe una simile deriva non è dato saperlo (al momento), ma è certo che non porterebbe alcunché di buono.

Come difendersi da una simile eventualità? La mia risposta è "istituendo il patentino del votante".
Di cosa si tratterebbe?
Si tratterebbe di un semplice test a risposta multipla (ossia "a crocette"), che verrebbe corretto in automatico da un lettore elettronico (come si fa già per alcuni esami scolastici). Questo test conterrebbe semplici domande di cultura generale e sarebbe politicamente NEUTRO: servirebbe solo a misurare il grado di istruzione e di consapevolezza di chi si appresta ad esercitare il proprio diritto di voto. Tra le varie domande, ne inserirei alcune (molto semplici) a mo' di capestro: se sbagli una di quelle sei bocciato in automatico, anche se hai risposto correttamente a tutte le altre. Analogamente alla patente di guida, anche il patentino del votante avrebbe una scadenza, modulata in base alla fascia d'età, e l'accesso alla prova d'esame sarebbe assolutamente gratuito e illimitato: se si venisse bocciati, si potrebbe ritentare gratis alla prima data disponibile. 

Una buona istruzione di base è fondamentale per esercitare consapevolmente il diritto/dovere di voto, qualunque sia la scelta espressa
Dite che sono antidemocratico? Chissà, magari avete ragione. Ora proviamo a fare un esempio: lascereste guidare la vostra fantastica Ferrari appena uscita dal concessionario (se non vi piace la Ferrari immaginate una qualsiasi auto di lusso a scelta) a un diciottenne qualsiasi col foglio rosa?

No vero?

Ecco. Ora metteteci il diritto di voto, al posto della Ferrari.

Avete ancora il coraggio di dire che sono antidemocratico?

Alla prossima puntata!!

mercoledì 19 luglio 2017

DR. JEKYLL E MR. HYDE: UNA STORIA UNIVERSALE E UNO SCRITTORE DIMENTICATO

Il tema letterario della doppia personalità ha sempre affascinato i lettori: il caso più famoso ed eclatante, anche solo per sentito dire, è sicuramente quello di Dr. Jekyll e Mr. Hyde, nato dalla penna di Robert Louis Stevenson (lo stesso de "L'isola del tesoro" e "La freccia nera", tra gli altri) e diventato l'esempio di doppiezza per eccellenza. Lo si può definire una specie di caricatura di ciascuno di noi: pur potendo essere integerrimi e perbene come Jekyll, tutti nascondiamo un Hyde pronto a saltar fuori e dare il peggio di sé. Ciascuno a suo modo, naturalmente.

Quello che pochi sanno, invece, è che questo tema è stato ripreso anche da un autore italiano rimasto sconosciuto ai più: Antonio Balbiani (1838-1889).

Originario di Bellano (CO) il Balbiani (esponente di un'antica ed illustre famiglia) affiancò all'attività di insegnante di lettere quella di scrittore e traduttore, occupandosi degli argomenti più vari, arrivando anche a scrivere di artigianato e agricoltura. Fino a pubblicare, nel 1871, il romanzo storico "Lasco, il bandito della Valsassina", che divenne in breve un vero "cult" tra gli abitanti del luogo: il libro ebbe nel tempo numerose ristampe, e ne fu scritto perfino un adattamento teatrale.


Ritratto di Antonio Balbiani (fonte: archivio Pietro Pensa)

Mi si dirà: dove sei andato a pescarlo?

Beh, il merito è di un birrificio locale, che ha deciso di dedicare due birre diverse alle due facce di questo personaggio: mecenate e signore benvoluto da tutti di giorno sotto il nome di Sigifredo Falsandri, spietato e sanguinario brigante di notte, in compagnia dei suoi "bravi". Il tutto ambientato intorno alla metà del XVII secolo, nella rocca di Marmoro (che taluni hanno identificato erroneamente con la rocca di Baiedo) e nei suoi dintorni. Nell'occasione il Balbiani non valorizzò solo il personaggio del Lasco, (creato da Amatore Mastalli di Cortenova), ma ebbe il merito di intrecciare le sue vicende con altre storie e leggende locali, con frequenti rimandi ai Promessi Sposi. Questo lavoro di raccolta fu completato in un'altra opera, "Como, il suo lago, le sue ville e le sue valli descritte e illustrate", pubblicata nel 1877 e che, al netto dei vari errori, rappresenta un pregevole documento di storia locale, risultato poi utile per la stesura di lavori successivi.


Frontespizio illustrato di una rara prima edizione di "Lasco, il bandito della Valsassina"
Purtroppo il successo del Balbiani si fermò qui: un altro suo romanzo "I figli di Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella", così come altre sue opere di stampo manzoniano, furono impietosamente stroncate da Giosuè Carducci, mentre la sua attività giornalistica nei dintorni del lago, pur essendo fervida ed innovativa per quei tempi (era un vero e proprio reporter d'assalto, che si recava di persona ovunque potesse esserci bisogno di lui), non ebbe la fortuna sperata, complice anche un periodo di crisi a livello locale.

Antonio Balbiani morì improvvisamente nella sua Bellano nel 1889. A suo ricordo, è stata murata una lapide all'esterno della sua casa natale mentre, nel borgo di Parlasco, sono stati realizzati molti dipinti murali, che hanno come tema proprio le vicende di Lasco e di altri personaggi leggendari del luogo.

Per chi lo desiderasse, a questo link è leggibile e scaricabile legalmente l'intera prima edizione del romanzo "Lasco il bandito della Valsassina", senza i rimaneggiamenti e le riduzioni che invece hanno caratterizzato le ristampe successive http://www.archive.org/stream/lascoilbanditode00balb#page/n3/mode/2up

Fonti:
Pagina dedicata sul sito dell'archivio Pietro Pensa

martedì 11 luglio 2017

ALLA (RI)SCOPERTA DELL'ASTIGIANITA'

Come scritto altrove (vedi La città delle occasioni perdute), secondo la mia umilissima opinione di astigiano del XXI secolo, la rinascita della città di Asti deve partire, innanzitutto, da una rinnovata consapevolezza di ciò che siamo stati, di come siamo ora, e come potremmo ritornare.
A tal proposito, ecco qui un documento che agli appassionati di storia è molto familiare, ma che alla maggior parte degli astigiani forse dice poco:

Bella vero?
E' una veduta dall'alto della nostra città risalente al XVII secolo, quando ormai il periodo di massimo splendore era trascorso da un pezzo. Eppure il duca Carlo Emanuele II di Savoia, sotto i cui domini ricadeva Asti, per far conoscere al resto d'Europa le bellezze dei suoi possedimenti fece stampare dall'editore e cartografo olandese Blaeu questa ed altre simili vedute, raccolte nel Theatrum Statuum Sabaudiae. Alla sua morte il lavoro fu portato avanti dalla vedova, la duchessa reggente Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, e pubblicato nel 1682.
Ad un primo impatto, ammetto che si fa un po' fatica a riconoscere Asti in questa illustrazione...poi però basta trovare un punto di riferimento qualsiasi, ed eccola materializzarsi davanti ai nostri occhi. Il mio ad esempio è stata l'antica Porta San Giuliano, tuttora esistente e seminascosta dal Santuario della Madonna del Portone (che nel Theatrum non compare semplicemente perché...non esisteva ancora). Una volta individuata quella, ecco che compaiono Via al Santuario, Corso Don Minzoni, Piazza Porta Torino e, da lì, Corso Alfieri, l'antica Contrada Maestra. Questo è solo l'inizio naturalmente: con un po' di pazienza si può effettuare una vera caccia al tesoro e localizzare su quell'antica mappa i luoghi attuali. Prima ancora, però, a mio parere occorre uno stimolo, talmente potente e visibile da scuotere anche il più incallito dei "bugia nen" astigiani...e cosa c'è di più visibile della suddetta mappa, magari piazzata in gigantografia in alcuni punti strategici? Così, di getto, mi vengono in mente Piazza Porta Torino, Piazza I Maggio, Piazza Cattedrale e Piazza San Secondo...ma ci possono essere anche altri luoghi. Ovviamente, non può mancare il classico circolino con la scritta "voi siete qui"...tanto per aiutare i cittadini stessi (prima ancora dei turisti) ad orientarsi nel proprio passato ed a conoscerlo meglio. Se poi queste gigantografie fossero accompagnate da versioni più piccole della mappa, sparse per la città in ogni luogo con cui abbiano un'attinenza storica, si avrebbe un quadro decisamente più completo.

Si dice che per piacere bisogna innanzitutto piacersi. Questo è vero per le singole persone, ma anche per la collettività: impariamo a conoscere, apprezzare e valorizzare ciò che abbiamo...il resto viene da sé.

A voi i commenti!!!

venerdì 7 luglio 2017

LA CITTA' DELLE OCCASIONI PERDUTE

"I walk this empty street, on the boulevard of broken dreams..."
Così recita una popolarissima canzone dei Green Day di qualche anno fa: Boulevard of broken dreams, la strada dei sogni spezzati.
Ecco, se si potesse la dedicherei ad un'intera città, che è quella in cui ho avuto la residenza fino al 2015, quando mi sono sposato: Asti. Non sono ferrato nella sua storia come possono esserlo alcuni personaggi molto più colti di me, le mie conoscenze sono (per ora) molto sommarie...eppure, leggendo qui e la, provo due sensazioni nette e contrastanti: rimpianto, e rivalsa.

Perché "rimpianto"?

Beh, cari astigiani...guardiamoci allo specchio, tutti quanti, e soprattutto guardiamoci intorno: davvero la città, la nostra città, ci piace così com'è? Non credo, soprattutto leggendo le più varie lamentele sui social network: micro-delinquenza dilagante, inquinamento, rifiuti sparsi qua e la, lavoro che non c'è e non si trova, piccole attività soffocate dalla GDO e dalla burocrazia...eccetera, eccetera, eccetera. Tutto vero eh, al netto delle esagerazioni di turno i problemi ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. Senza contare la percezione che può avere chi vive lontano, e magari ha sentito parlare di Asti solo per lo spumante, o il Barbera.
In questo senso, ecco cosa mi capitò tempo fa: nella chat privata di un gioco di ruolo, quando dissi di essere astigiano la risposta fu "aaaah, ubriaconeeeeee :-) :-)". Così, tanto per dire...
Poi, c'è la lamentela PRINCIPE, che sento da quando sono nato: "ad Asti non c'è mai niente"...informarsi un po' no eh? Suvvia, ora c'è anche internet, si trova tutto con un minimo sforzo...ma sto divagando, e non ho ancora risposto alla domanda di qualche riga fa: perché "rimpianto"?

Beh, torno a dire: guardatevi attorno, magari nelle vie del centro storico, tra i palazzi di cui pochi si curano di conoscere la storia, e riflettete un attimo: gli edifici storici parlano, se li sappiamo osservare. Personalmente, più li guardo e più mi fanno pensare ad un'antica grandezza che, se ci documentiamo almeno un po', sappiamo essere esistita tra alti e bassi nei secoli, fino all'avvento di Napoleone.

Lo storico Carlo Vassallo, in proposito, ebbe a dire:

"Se Asti avesse saputo durar concorde, forse il Po, avrebbe dovuto al Tanaro invidiare la capitale del Piemonte".


Il dipinto "Cristo e gli apostoli sulla riva del Borbore", della cerchia di Bartolomeo Caravoglia (1670), esposto a Palazzo Mazzetti. Anticamente Asti era soprannominata "La città delle cento torri". Un soprannome azzeccato, a giudicare da ciò che si vede sullo sfondo.
Mica male vero?
Solo che, purtroppo, con i "se" e con i "ma", non si fa la Storia, e quel "se" di Vassallo pesa come un macigno su ciò che poteva essere e che non è stato. Lotte fratricide, contrasti, guerre contro nemici interni ed esterni hanno impedito nei secoli ad Asti di fare il definitivo "salto di qualità" compiuto invece da altre città come Milano, Mantova, Ferrara, Firenze ed altre che, trasformatesi in signorie, seppero far durare la loro prosperità per molto tempo. Così purtroppo non è stato, e il cosiddetto "riassetto urbano" del '900 ha fatto il resto, distruggendo parte del patrimonio storico. Il rimpianto di cui sopra deriva proprio da questo: dalla consapevolezza che, con un minimo di lungimiranza in più, ora vivremmo in una città molto diversa, e forse molto migliore. Invece, l'attitudine all'essere "bastian cuntrari" e a guardare solo al proprio orticello (che ci trasciniamo ancora oggi) ha tarpato, e tarpa tuttora le ali alla città. 

Di recente, ho letto "Nel nome di Asti", romanzo storico di Ito de Rolandis ambientato in epoca pre-rinascimentale, e ne sono rimasto affascinato, anche per il fatto di poter identificare alcuni luoghi dell'ambientazione con luoghi reali e tuttora esistenti. Alla fine del libro mi son fermato a riflettere e, pensando alla situazione attuale, mi son detto "ma come caxxo ci siamo ridotti...altro che Aste Nitet Mundo Sancto Custode Secundo". Da qui, "rivalsa", il secondo sentimento di cui parlavo all'inizio.

Intendiamoci: il mio non è un proposito di ritorno all'antico come quello scherzoso di alcune pagine Facebook tipo Feudalesimo e Libertà, non ho intenzione di fondare una casana, edificare un quartiere murato e fortificato come facevano secoli fa le famiglie astigiane più abbienti, o proclamare la rinata Repubblica Astese. Né intendo rivolgermi all'una o all'altra parte politica, il discorso è molto più profondo, e sicuramente è apartitico ed apolitico. Con questo "pezzo", mi rivolgo a me stesso e a ciascun singolo astigiano, autoctono o adottivo: possibile che la mentalità e le capacità che hanno fatto grande Asti nei secoli passati siano svanite del tutto? O semplicemente sono lì, a covare come fuoco sotto la cenere, aspettando il momento giusto per riemergere?

Da inguaribile ottimista, sono decisamente per la seconda ipotesi, e mi dico: "Sono astigiano, e sono orgoglioso di esserlo. Con le mie qualità e i miei difetti. Prima di dire che la mia città fa schifo e che non ha nulla da offrire, devo pensare a cosa posso fare nel mio piccolo per migliorarla...a partire da me stesso".

Ah, a proposito: tra le città candidate a capitale italiana della cultura per il 2020, c'è anche Asti. A buon intenditor poche parole...

A voi i commenti!!!


Grazie a Gianluigi Bera per la consulenza

giovedì 9 febbraio 2017

LA DISSIPAZIONE DI UN PATRIMONIO

È di questi giorni la notizia di un appello, lanciato in questi giorni da alcune centinaia di professori, che pone l’accento su un problema piuttosto grave: gli errori-orrori grammaticali e ortografici commessi dagli studenti universitari. Ora, se una persona arriva all’università, si suppone che abbia le basi per esprimersi oralmente e per scritto: in fin dei conti all’università si sostengono esami, si preparano relazioni, si consultano abitualmente dispense scritte da altri e tomi non esattamente alla portata di chiunque. Eppure, dicono desolati i suddetti professori, negli atenei si assiste quotidianamente allo scempio della lingua italiana, con errori da scuola elementare, pardon primaria, ormai si chiama così.
Vi dirò, non è difficile da credere: sono stato anche io studente universitario, e ho conosciuto in prima persona colleghi con voti anche alti che faticavano a scrivere una relazione scritta comprensibile e avevano un vocabolario personale molto limitato. Non solo: a volte li ho visti arrabbiarsi (questo succede spesso anche nelle scuole di grado inferiore) perché un docente che so, di chimica, aveva corretto un errore grammaticale nella prova scritta abbassando il voto. “Non è il suo lavoro, mica insegna italiano, l’esercizio era giusto!”, questa è la reazione abituale quando succedono questi episodi, un tipico esercizio di paraculaggine con cui ci rifiutiamo di focalizzare il problema reale. Per citare una frase fatta, la situazione è la stessa di quando “il saggio indica la luna, ma lo stolto guarda il dito”. È ovvio che il docente di chimica corregge innanzitutto ciò che rientra nel suo campo di competenza, ma facciamoci questa domanda: è accettabile che, a livello universitario, ci sia impreparazione in campo grammaticale e ortografico? Prima di rispondere, pensiamo un attimo a quello che è, o dovrebbe essere, lo scopo dell’università: formare le menti migliori, aiutarle ad esprimere tutto il loro potenziale, preparare la classe dirigente del futuro.
Ecco.
Se colleghiamo quest’ultima affermazione con quanto scritto in precedenza, possiamo iniziare a tremare: la futura classe dirigente commette errori da scuola primaria, e neanche si preoccupa di correggerli. Viene da chiedersi, cosa faranno queste persone una volta che arriveranno effettivamente a dirigere qualcosa? Se in questi futuri dirigenti alberga questo atteggiamento di spocchia e superiorità nei confronti della cultura di base, che dirigenti potranno mai essere? C’è da aver paura a pensarci, poi basta ascoltare gli strafalcioni presenti nei discorsi di alcuni politici, e ci si rende conto che la frittata è bell’e che fatta: abbiamo mandato al potere gente (anche non laureata, ma questo è il meno) che non sarebbe neanche dovuta uscire dalla scuola primaria per manifesta impreparazione. Non solo: questo atteggiamento di superiorità e di arroganza si riscontra anche in frasi grammaticalmente corrette ma raggelanti, tipo “con la cultura non si mangia”, frase detta da un ex ministro dell’economia. Eccolo lì, il dialogo con la “pancia” dell’elettore medio: la cultura non ti nutre, per cui ne puoi anche fare a meno. Con tutte le conseguenze del caso: anche nella vita di tutti i giorni, si incontrano continuamente persone che non sanno esprimersi correttamente a voce o per scritto, e non perché non abbiano frequentato la scuola, ma perché semplicemente “cosa importa se scrivo bene, se non faccio errori di grammatica, se so usare il congiuntivo? Mica mi dà da mangiare, il congiuntivo!”; o ancora “io non leggo, non mi piace, ne ho già abbastanza dei libri di scuola”…e intanto il vocabolario personale si assottiglia sempre di più. Eccolo, il patrimonio che stiamo dissipando a più non posso: la nostra meravigliosa lingua, violentata quotidianamente da chiunque, a tutti i livelli. È stato raggiunto un grado impressionante di impreparazione e negligenza nel suo uso, solo perché “ma si, tanto si capisce cosa voglio dire”, oppure “sto commentando su Facebook, mica sto scrivendo un tema”. Si può quasi parlare di analfabetismo di ritorno, e la cosa grave è che colpisce tutti, perfino chi scrive le leggi dello Stato, che produce così testi incomprensibili, come denunciato dal presidente del Senato Grasso. Siamo arrivati a questo: abbiamo svalutato la nostra lingua, e più in generale la cultura personale, e così ci ritroviamo con aspiranti dirigenti magari anche preparati nel loro campo, ma fondamentalmente “somari”. Un paradosso che non promette nulla di buono. Non starò a sindacare ora sulle cause di questo declino, ma penso che, se vogliamo invertire la tendenza, il cambiamento debba partire dal basso, da ciascuno di noi: leggiamo un libro in più, arricchiamo il nostro vocabolario, risolviamo quel dubbio grammaticale od ortografico che magari ci tormenta dai tempi della scuola: così facendo, magari ci ricorderemo meglio di esigere la stessa chiarezza e lo stesso rigore da parte di chi ci governa. Alla faccia di chi dice che “con la cultura non si mangia”, e magari fa di tutto per alimentare l’ignoranza.


A voi i commenti!