Siamo a cavallo tra il XV e il XVI secolo: in Italia, ben lungi dall'essere uno stato unitario, Francia e Spagna si contendono il controllo del territorio fino ad arrivare, nel 1501, alla conquista ed alla spartizione del Regno di Napoli. Come spesso accadeva, la tregua tra le due super potenze durò poco e, appena un anno e mezzo più tardi, francesi e spagnoli ricominciarono a scontrarsi per il possesso di alcuni territori contesi del defunto regno napoletano. E' in questa cornice che avvenne il duello passato alla storia come "Disfida di Barletta".
La storia la conosciamo più o meno tutti: un ufficiale francese prigioniero degli spagnoli, Guy la Motte, durante un banchetto accusò i soldati italiani (che militavano nelle fila spagnole) di codardia e di scarso valore. Gli spagnoli, temendo che si innescasse una sfida che avrebbe portato al ferimento e alla perdita di truppe, cercarono in tutti i modi di dissuadere il la Motte, o almeno di fargli correggere il tiro. Non ci fu nulla da fare, il francese ribadì più volte il suo pensiero, lo scontro per lavare l'onta era inevitabile. Si stabilì perciò che 13 cavalieri francesi avrebbero affrontato 13 italiani in duello, nella piana tra Andria e Corato. Lo scontro fu pianificato nei minimi dettagli: cavalli ed armi degli sconfitti sarebbero stati bottino dei vincitori, più un riscatto di cento ducati per ogni cavaliere sconfitto. In più, si stabilì che qualunque cavaliere uscito dal campo di gara fosse da considerare fuori combattimento, e quindi sconfitto.
L'esito della sfida, come sappiamo, fu favorevole agli italiani che, guidati dal condottiero Ettore Fieramosca, fecero rimangiare al la Motte ogni singola parola: i francesi, talmente sicuri di vincere da non portarsi dietro i soldi del riscatto, furono presi tutti prigionieri e condotti a Barletta in catene.
Francobollo commemorativo della Disfida di Barletta, emesso in occasione del 5° centenario |
Di loro si sa poco, giusto i nomi, e poco altro. Tra di loro però, ce ne fu uno che acquisì, suo malgrado, una nomea che dura ancora oggi: quella del mercenario e del traditore. Il suo nome era Claude Grajan d'Aste, italianizzato in Grajano d'Asti.
Paolo Giovio, vescovo e storico vissuto al tempo della Disfida (aveva 20 anni quando avvenne), narra che Grajano (Graziano? Grand Jean?) era "nato in Aste, colonia d'Italia", e che "poco onoratamente, se non a torto, aveva preso l'armi per la gloria d'una nazione straniera contra l'onor di patria". Tre secoli dopo, fu il turno del poliedrico artista Massimo d'Azeglio che, nel suo Ettore Fieramosca, definisce senza mezzi termini Grajano come "di que' tali che ne vanno dieci per uscio, né bello né brutto, né buono né cattivo; assai buon soldato bensì, ma che avrebbe servito il Turco se meglio lo avesse pagato". Dal romanzo del d'Azeglio sono poi stati tratti tre film, in cui il cavaliere franco-astigiano è sempre, invariabilmente rappresentato come un traditore, contrapposto alla forza e al valore di Fieramosca e compagni, fulgido esempio di italianità.
Già...l'italianità, l'amor di Patria...che all'epoca della Disfida non esisteva. Come ben sappiamo, infatti, l'Italia come nazione esiste dal 17 marzo 1861. Prima, per dirla con le parole di Metternich, "Italia" era una semplice espressione geografica.
Ragionando in termini concreti, militarmente la Disfida fu un episodio tutto sommato secondario nel teatro della seconda guerra italiana (1499-1504). Il conflitto sancì la spartizione della penisola tra Francia e Spagna, e il valore della Disfida fu più che altro simbolico: la vittoria contribuì a dare lustro ai combattenti italiani, che si guadagnarono così il rispetto e la stima dei cavalieri stranieri, soprattutto francesi. In epoca fascista, poi, la Disfida di Barletta fu declinata in chiave patriottica (e completamente anti-storica).
In tutto questo, il povero Grajano fu doppiamente sfortunato: non solo passò alla storia come traditore ma, come riporta il Giovio, fu l'unico dei contendenti a morire sul terreno dello scontro, per una grave ferita alla testa.
Ebbene, prendendo per buona l'origine astigiana di Grajano, dopo 5 secoli, sarebbe ora di raccontare la verità: Grajano d'Asti non era un traditore. Non lo fu mai.
Chi ha esaltato l'italica virtù di Fieramosca e compagni, contrapposta al presunto tradimento di Grajano, ha dimenticato a bella posta un dettaglio fondamentale: Asti, nel 1503, era territorio francese e tale rimase, tra alterne vicende, fino al 1525 (sconfitta francese nella battaglia di Pavia).
Proprio così: Asti, persa la sua indipendenza nel 1342, fu portata in dote dalla Principessa Valentina Visconti al matrimonio con Luigi di Valois, celebrato nel 1389. Luigi (assassinato nel 1407) era il nonno paterno del re di Francia Luigi XII, regnante all'epoca della Disfida. Per cui, che Grajano fosse astigiano di famiglia, o fosse figlio di immigrati francesi, magari di estrazione militare, poco importa: da suddito del re di Francia, combatté e morì (logicamente) per i francesi.
Altro che tradimento. Quella di Grajano fu solo sfortuna nera. Il classico caso in cui ci si trova al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Purtroppo, nel sentire comune, la sua figura è rimasta associata all'archetipo del mercenario, e a poco finora sono valse le voci contrarie, sebbene autorevoli. A partire da quella dello storico pugliese Giuseppe Petraglione che, già negli anni '30-'40, aveva ampiamente smontato la tesi del Grajano mercenario e traditore, collocandolo nel giusto contesto storico.
Cosa si può fare? Magari parlarne, come ho appena cercato di fare. In fin dei conti, da astigiani, sarebbe doveroso cercare di cancellare il marchio del traditore dal nome di questo nostro concittadino, che il 13 febbraio 1503, nella piana tra Andria e Corato, fece semplicemente il suo dovere di astigiano e suddito francese.
A voi i commenti!!
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